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Si chiamava Milos Zujovic (si faceva chiamare Salahudin) lo scorso 29 giugno ha compiuto l’attentato terroristico davanti all’ambasciata israeliana a Belgrado, attacco nel quale lui stesso è rimasto ucciso dalla reazione del poliziotto Miloš Jevremovi c (34 anni), che aveva ferito gravemente con una balestra. Lo ha detto il ministro dell’interno serbo Ivica Dacic, aggiungendo che si tratta di un convertito all’islam originario di Mladenovac, cittadina a sud di Belgrado. Il giovane, risiedeva a Novi Pazar, città nel sudovest della Serbia e capoluogo del Sangiaccato, regione a maggioranza musulmana. Il ministro ha informato che sono in corso indagini e perquisizioni in vari luoghi per fare luce sui contatti dell’uomo che secondo il padre «ha cambiato religione quattro o cinque anni fa e che è stato reclutato da persone provenienti dal Montenegro». Le indagini hanno successivamnente portato all’arresto con l’accusa di associazione terroristica, di un’altra persona identificata in Igor Despotovi c nato nel 1999 a Belgrado, già arrestato due anni fa per essere l’amministratore di alcuni gruppi militanti su Internet che promuovevano il jihadismo.
Lo scorso 30 giugno invece è stata arrestata in Montenegro anche la moglie di Milos Zujovic che sarebbe all’origine della sua conversione e successiva radicalizzazione. Lo ha reso noto il capo della direzione della polizia criminale di Podgorica, Ninoslav Cmolic, aggiungendo che «tutti i dispositivi elettronici della donna sono stati confiscati ». Dalle indagini condotte dalle autorità della Serbia era emerso, secondo quanto precisato dal ministro dell’Interno serbo Ivica Dacic, che la moglie di Zujovic si era recata in Montenegro il giorno prima dell’attentato. La polizia serba ha scoperto durante una perquisizione nell’abitazione di Zujovic a Mladenovac la ricevuta di acquisto di una balestra, l’arma utilizzata nell’attacco all’ambasciata israeliana.
Secondo lo scontrino ritrovato, la balestra è stata acquistata presso un negozio a Zemun, quartiere di Belgrado. Le autorità serbe hanno anche perquisito un’altra residenza di Zujovic nel comune di Novi Pazar, situato nel Sangiaccato, una regione serba a maggioranza musulmana. Il presidente serbo Aleksandar Vucic ha dichiarato che Zujovic faceva parte di un gruppo già sotto sorveglianza delle forze dell’ordine a causa di sospetti di terrorismo. Secondo il capo di Stato, l’attacco all’ambasciata israeliana è stato pianificato attentamente. Vucic ha poi affermato: «La Serbia è uno dei Paesi più sicuri al mondo, uno dei più sicuri in Europa. Belgrado è una delle città più sicure. Sono orgoglioso di questo, non avremo nessuna pietà verso il terrorismo e i terroristi » . L’agente di polizia Milos Jevremovic, ferito al collo da un colpo di balestra, è ora in condizioni stabili dopo aver subito un intervento chirurgico. In risposta all’attacco, è stato mantenuto in vigore in tutto il Paese il livello rosso di minaccia terroristica. Questa misura permette alla polizia di intensificare la sorveglianza delle missioni diplomatiche e consolari, delle istituzioni statali, dei luoghi affollati come centri commerciali, stazioni ferroviarie e degli autobus.
Minaccia per la sicurezza
Il salafismo fondamentalista, insieme a vari rami radicali dell’Islam, è stato introdotto per la prima volta nei Balcani attraverso predicatori e moschee sponsorizzati dall’Arabia Saudita durante le guerre in Bosnia e Kosovo negli anni ’90. La sua influenza si è estesa in modo significativo nell’ultimo decennio, alimentata in parte dalla difficile situazione economica e sociale della regione e dalla generale mancanza di opportunità, soprattutto per i giovani. Si stima che circa 1.225 foreign fighters siano partiti dai Balcani per unirsi a gruppi jihadisti in Siria e Iraq tra il 2012 e il 2024.Tuttavia, questo numero è solo una stima approssimativa e potrebbe essere impreciso. I combattenti provenivano da tutti i paesi dei Balcani occidentali, con il Kosovo che ha fornito il maggior numero di volontari (circa 300 ), seguito dalla Bosnia ed Erzegovina (circa 190) e dalla Macedonia del Nord (circa 170) mentre dalle Serbia ne sono partiti circa 50. Si stima che circa 500 foreign fighters siano tornati nella regione dai campi di battaglia in Siria e Iraq. Di questi, 242 sono rientrati in Kosovo. Circa 260 foreign fighters balcanici sono morti in combattimento. Tra i rimpatriati ci sono anche 81 minori e diversi bambini nati nella zona di conflitto. I foreign fighters di ritorno rappresentano una significativa minaccia alla sicurezza dei Balcani, visto che possono radicalizzare altri e pianificare attacchi terroristici. I governi della regione stanno lavorando per contrastare questa minaccia, ma è una sfida molto complessa che richiede un impegno a lungo termine.
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