
Duello all’ultimo razzo tra Israele e Iran (LV 16.06.2025)
L’ISIS rialza la testa nella Siria orientale

A oltre sei anni dalla caduta del cosiddetto Califfato, lo Stato Islamico non è morto. È mutato. E oggi, dalle sabbie roventi del deserto siriano, torna a colpire. L’ISIS, sconfitto militarmente nel 2019 con la caduta dell’ultima roccaforte a Baghouz, ha trovato nuova linfa nell’instabilità che continua a lacerare la Siria. Tra il ritiro graduale delle truppe statunitensi, la fragilità politica e il sovraffollamento dei campi di prigionia, l’organizzazione jihadista ha ricominciato ad agire come un’insorgenza, e i suoi attacchi stanno aumentando di intensità e frequenza.
Secondo stime occidentali, nel 2025 il gruppo conta ancora circa 2.500 combattenti attivi tra Siria e Iraq. Operano in clandestinità, spesso sfruttando le aree desertiche del Badia, tra Deir Ezzor, Homs e Suwayda, per lanciare agguati, posizionare ordigni esplosivi e attaccare le forze curde delle SDF, l’esercito siriano e milizie alleate.
Il 22 giugno, un attentato suicida in una chiesa cristiana a Damasco ha riacceso l’allarme. L’autore, secondo fonti della sicurezza siriana, sarebbe stato un miliziano dell’ISIS entrato armato nell’edificio prima di farsi esplodere. È stato il primo attacco di questa portata nella capitale da mesi, ed è stato interpretato come un segnale inequivocabile della capacità del gruppo di colpire anche nelle aree urbane più sorvegliate.
Ma la minaccia non si limita a singoli attentati. I raid e gli imboscate nel nord-est, le autobombe nel sud, gli attacchi a convogli della coalizione e le azioni di sabotaggio si susseguono a ritmo crescente. Le forze democratiche siriane, alleate degli Stati Uniti e principali protagoniste della guerra contro l’ISIS, denunciano un progressivo abbandono da parte di Washington. Il parziale ritiro delle truppe americane da basi strategiche come Al-Wazir e Tel Baydar ha lasciato un vuoto che i jihadisti non hanno tardato a sfruttare.
Il generale curdo Mazloum Abdi, comandante delle SDF, ha lanciato un allarme chiaro: «L’ISIS si sta riorganizzando. Senza un supporto internazionale continuo, non potremo contenerlo a lungo». L’attenzione, però, sembra ormai spostata altrove. E mentre i riflettori mediatici si spengono, nei campi di detenzione del nord-est siriano – come al-Hol e al-Roj – crescono nuove generazioni di radicalizzati. Migliaia di detenuti, inclusi ex combattenti e donne affiliate al Califfato, vivono in condizioni critiche, senza processi né prospettive. Sono un focolaio di instabilità, un serbatoio di militanza potenziale. L’ISIS sfrutta anche la crisi umanitaria. Le minacce di tagli agli aiuti statunitensi e la scarsa attenzione della comunità internazionale alimentano risentimento e disperazione. Terreno fertile per la propaganda jihadista che è sempre piu’ incessante.
Sul piano politico, intanto, si cerca un difficile riassetto. Sono in corso tentativi di mediazione per integrare le SDF in una struttura militare siriana unificata, ma l’ostilità tra curdi e regime resta alta. La mancanza di un governo inclusivo e la lentezza nei processi di ricostruzione offrono all’ISIS ciò di cui ha più bisogno: il caos. In questa fase, il rischio non è la rinascita di un Califfato territoriale come quello del 2014. Ma piuttosto l’affermazione di una rete sotterranea, letale, resiliente, capace di colpire a ondate e di rigenerarsi nei vuoti lasciati dalla diplomazia e dalla guerra. Per sradicarla del tutto, servirebbero stabilità, giustizia, sviluppo. Ma nella Siria del 2025, queste parole suonano ancora come una promessa lontana. Nel silenzio internazionale, l’ISIS resta all’erta. E aspetta.
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